«A un dio fatti il culo non credere mai», cantava De André. Il riferimento è alla cacciata del segretario della Cgil, Luciano Lama, dalla Sapienza a opera di indiani metropolitani e autonomi, il 17 febbraio 1977. È l’anno centrale del compromesso storico: il governo Andreotti III si è formato con l’appoggio esterno – cioè la non sfiducia – del Pci, che poté sfruttare la crescita elettorale per imporsi come unico interlocutore del governo monocolore estromettendo i socialisti.
Sono anni difficili per chi deve tirare a campare, ma il sistema in qualche modo regge per tutti gli anni ’70: l’inflazione galoppa, trascinandosi dietro un’economia nazionale che smette di crescere e stagna; ma nonostante le accise governative sull’energia, il costo della vita è rimarginato dal meccanismo della scala mobile che, con qualche sfasamento temporale tra pubblico e privato, consente di recuperare il quantum salariale eroso dell’inflazione. L’istituzione sindacale di questa indicizzazione retributiva orizzontale – il cosiddetto «punto unico di contingenza» del 1975 – fu additata come responsabile del livellamento dei salari tra categorie diverse di lavoratori, fatto che avrebbe scoraggiato la competizione e la crescita del mercato del lavoro; il che, tuttavia, era valido a meno di considerare l’anzianità di servizio. Il problema vero era effettivamente quello dei giovani: disoccupazione e scarsa valutazione dei titoli di studio. In pratica, c’erano troppi laureati perché il mercato li riuscisse ad assorbire; d’altro canto, un giovane di origini operaie o di piccola borghesia è indotto a vivere l’università di massa degli anni ’70 come un parcheggio, seppure molto costoso, nel quale la differenza sociale sfocia in lotta contro i «baroni», mentre le tenui prospettive di progresso sociale allungano ulteriormente i tempi e i costi di permanenza.
Il 17 febbraio 1977, un contestatore a cui era stato detto che così facendo favoriva i baroni, rispose: «’o sai quando fai contenti ai baroni? Quando cacci via dall’università 5000 lavoratori precari, quando metti le tasse a 120.000 lire, quando obblighi un proletario che deve venì a scola, a studià per 20 anni pe’ fà l’ingegnere, hai capito?» (audio registrato). Lo stipendio medio di un metalmeccanico si aggirava sulle 160.000 lire. Insomma, si tratta della generazione del primo precariato, i cosiddetti «non garantiti». Ed è per loro che Lama è lì quel giorno a concionare. Ed è da loro – la parte organizzata fuori dai ranghi del Pci, ovviamente – che viene cacciato. Ed è per loro che sostiene, l’anno seguente, di avere intrapreso una inedita programmazione economica nota come la «svolta dell’Eur».
In una celebre intervista concessa a Scalfari, Lama anticipò il programma elaborato dalla Federazione, che sarebbe stato esposto dai sindacati confederali il 13 e 14 febbraio 1978: «Sarà un momento determinante nella storia del sindacalismo italiano, perché i rappresentanti dei lavoratori saranno chiamati a decidere, sotto gli occhi di tutta l’opinione pubblica, quale ruolo la classe operaia intende svolgere per raddrizzare la barca Italia» (24 gennaio 1978). I rappresentanti dei lavoratori decisero il ruolo della classe operaia. Il ruolo consisteva nei «sacrifici»: definitivo superamento dei consigli di fabbrica, esuberi, mobilità e blocco salariale, altrimenti detto: fine della democrazia diretta nel lavoro, licenziamenti, ristrutturazione della cassa integrazione e addio alla scala mobile.
Si capisce che la classe operaia – ormai prossima alla trasformazione sotto la spinta della ristrutturazione capitalistica del lavoro, assecondata dai sindacati – fosse protetta e rappresentata solo da sé stessa: espropri della merce, autoriduzione delle bollette di energia e telefono («vogliamo pagare quanto Agnelli»), occupazioni abitative, scioperi a oltranza o a gatto selvaggio, finanche le rappresaglie contro i padroni per le morti sul lavoro e così via, insomma tutto ciò che veniva bollato come violenza e illegalità era, in tutta evidenza, difesa dei «bisogni» della classe e crescente movimento per la sua emancipazione dal lavoro salariato. È questo che era chiamato, in epitome, «bisogno di comunismo». Altro che sacrifici! Partito e sindacato si erano invece fatti parte del potere dello stato borghese arrivando ad appoggiarne la repressione e favorirne gli interessi contro la classe: di qui l’autonomia della classe.
Per reazione, la svolta dell’Eur decretò la fine del sindacato come soggetto sociale, e il suo passaggio a soggetto politico. Di lì a poco sarebbe finito il compromesso e il Pci sarebbe stato escluso nuovamente dal potere, senza che fosse riuscito a realizzare nulla di quel piano di riforme che l’accesso al potere avrebbe dovuto garantire secondo Berlinguer; il centro-sinistra (penta- e tetrapartito) avrebbe seppellito ogni ambizione della classe operaia; e i sindacati avrebbero perso il proprio storico rapporto con la base per ridursi al ruolo di controparte istituzionale nell’ambito della «concertazione», meglio definita nel luglio ’93, ossia del coinvolgimento diretto dei sindacati riconosciuti come rappresentativi (i confederali) nella programmazione economica del governo al fine di stipulare contratti collettivi nazionali. Questi tipi di contratti recano una forte impronta politica (del governo e degli interessi che esso difende), sono escludenti (dei sindacati di base) nel negoziato e non sono neppure impegnativi in assoluto in quanto basta che un padrone non li sottoscriva perché possa imporre altre condizioni salariali (come per molto lavoro povero di oggi).
Perché ricordiamo tutto questo? Perché chi cacciò Lama dalla Sapienza ci aiuta a capire meglio l’oggi e ci indica una strada per l’avvenire. Se prendiamo in considerazione gli ultimi mesi e le due date di sciopero generale contro la finanziaria, il quadro che si delinea è questo.
I sindacati di base hanno chiamato uno sciopero generale per il 28 novembre, che nel riproporre la parola d’ordine Blocchiamo tutto hanno mostrato quanto sia rapidamente usurabile una parola che non corrisponda all’azione. Non la prassi dello sciopero generale, ma il blocco fatto prassi era stato l’elemento di conflittualità attiva delle giornate di settembre e ottobre; quindi, non le sigle sindacali di base, ma l’autoconvocazione di classe ha agito, prima, e ha spesso di intervenire, poi. La classe manifestatasi in autunno si è mostrata indifferente alla contabilità elettorale delle piazze, perché sembra indifferente al voto. Al momento attuale, le piazze non consentono di trarre legittimità di pianificazione politica: consenso.
Il secondo sciopero generale è stato lanciato dalla Cgil, ma senza connotazioni politiche marcate, quantomeno in apparenza. La motivazione principale questa volta sono i salari. Infatti, non è un caso che Cgil-Flc sia stata l’unica sigla a non firmare a novembre il rinnovo con un contenuto aumento per la scuola, con riferimento al triennio 2022-24. Un ritorno ai bisogni dei lavoratori che è già un buco nell’acqua: il lavoratore, in questo caso, della scuola vede solo che si mercanteggia sulla sua greppia una partita politica contro un governo di destra. Questo si sente dire a scuola dai nati negli anni ’70. Anche se le cose non stanno così, perché di contratti ne ha firmati con i governi di destra, la Cgil deve ora mostrarsi meno politicante e più «sociale» (di «rivolta sociale», parla): dopo avere perso un referendum che è diventato terreno di scontro politico e la figuraccia del «primo sciopero per Gaza» del 19 settembre, la Cgil si è messa a fare quello che dovrebbero fare i sindacati di base, e viceversa.
Nessuna sigla si avvantaggerà delle due date, perché non si può far perdere due giornate a un salariato per un tornaconto politico. Da Gramsci in poi, è la vecchia storia dell’autonomia del politico, della ricerca del segreto della vittoria della borghesia sul e nel popolo, cioè quel polpettone in cui le classi democraticamente si confondono e l’antagonismo si disperde. Invece esiste un terreno di scontro in cui l’antagonismo è vivo o quantomeno emerge a sprazzi: è il diritto alla città. Come negli anni ’50 lo sviluppo modificò la forma della città attraverso emigrazione meridionale, speculazione edilizia e industrializzazione, creando il nuovo proletariato che avrebbe animato i venti anni successivi, così oggi sfollamento ed espulsione, estrazione fondiaria e turistificazione, decomposizione del lavoro dipendente in fornitura di servizi e disciplinamento della vita 24 ore su 24 in forma di lavoro autonomo definiscono la normale condizione delle città e mostrano a evidenza il perché caso e causa palestinesi abbiano risvegliato la coscienza del precariato italiano. Non è un caso che la seconda manifestazione di una soggettività antagonistica, che ha chiuso questo autunno, sia stata innescata dagli sfratti violenti di via Michelino, dove l’arroganza padronale ha abbattuto in diretta un muro, con su affisso un Corano!, solo per non perdere un’altra porta blindata.
Il dibattito degli anni ’70 su organizzazione e soggettività, se il luogo dell’antagonismo sia dentro e contro il capitale o contro e fuori dal capitale, torna attualissimo, con la necessaria attualizzazione. Oggi sembra che tutto quanto è o può essere emersione di conflittualità reale o ricchezza dei bisogni sociali venga immediatamente sussunto dal capitale a un tale livello da rendere impossibile la distinzione tra bisogni (valori d’uso) e sfruttamento (valori di scambio). Oggi produzione e riproduzione tendono a sovrapporsi, fino a coincidere: il tempo di circolazione del capitale, nel quale la merce si rigenera in moneta e il salario rimuta in merce, tende a essere inglobato nel tempo della produzione e del lavoro vero e proprio. Il proprio furgone, la propria casa, i propri anni di scuola, il proprio pc, il proprio smartphone, finanche la propria persona sono tutte cose da cui si estrae valore, sono autovalorizzazione del capitale, sono cioè luogo dello sfruttamento. Un tale stato di cose non può che reggersi sulla mistificazione della realtà, sull’ideologia che rovescia i rapporti reali. Per questo, solo un eccesso di violenza nella pratica costante del dominio è riuscito a bucare lo schermo squarciando il velo dell’ideologia. Solo genocidio e sfratto violento hanno rivelato la menzogna. Tuttavia, a queste condizioni le lotte si sviluppano in proporzione inversa alla violenza: l’antagonismo, cioè l’istanza soggettiva in rottura, emerge solo a un livello molto basso e disomogeneo della società, che è prostrato dalla sua condizione di sfruttamento e difficilmente può lottare anche per gli altri. Vedi gli scioperi nella logistica. A questo punto si agganciano le organizzazioni politiche.
La composizione politica odierna fiancheggia la composizione sociale, non ne discende. Le organizzazioni sembrano subire come una tara la propria storia di separatezza dalla società dello sfruttamento, e non mostrano di saper socializzare oltre un certo grado i propri saperi tradizionali e le capacità tecniche apprese dallo Stato (scuola, lavoro, etc.); inoltre, anch’esse sono state sussunte nella sfera della riproduzione, ora nel senso della sussidiarietà rispetto allo Stato, ora nel senso della trasformazione dei bisogni in merce o ideologia. È così che le organizzazioni non solo subiscono occasionali fenomeni di riflusso che sono sintomi di frustrazione e inanità della lotta, ma anche lamentano un’insufficienza rispetto alla classe.
Dunque, insufficienza soggettiva dell’organizzazione e deficienza organizzativa della classe. Come venirne fuori? L’unica ci sembra agire sul piano della tattica. Prendiamo sì le mosse dal sindacato, ma per passare finalmente, vertenza dopo vertenza, al politico. Alla strategia. Non c’è bisogno di federare le organizzazioni per avere forza, semmai c’è bisogno di condividere obiettivi pratici dettati dal bisogno-sfruttamento odierno.
Non una piattaforma unitaria di lotte, ma una piattaforma di lotte unitarie. Il che vuol dire un massimo di soggettività all’interno dell’organizzazione, poiché «è la lotta che fa l’organizzazione». Destrutturare il capitale è l’unico modo tattico per destabilizzare un gigante con le ginocchia di creta.
