
La fabbrica aperta: letteratura e teatro in assemblea permanente
Mica lavoro alla Fiat.
mio padre
Che senso ha che letteratura e teatro entrino in fabbrica se la fabbrica è ferma?
Cominciamo col rispondere che la fabbrica è ferma ma non è vuota, è ferma ma è agitata, ci sono gli operai ma non lavorano, ossia lavorano ma non producono. Il paradosso si risolve così: un’azienda sana delocalizza, gli operai si riuniscono in assemblea permanente per resistere al licenziamento, la lotta per il lavoro diventa il loro lavoro.
Le epoche di transizione sono epoche paradossali. La nostra è un’epoca di transizione: di transizione ecologica, dicono, o più concretamente di transizione produttiva. A partire dagli anni ‘80, deindustrializzazione ha significato fine del vecchio modo di produrre e di lottare, precariato e riflusso. Poiché la realtà corre in anticipo sulle idee, le contraddizioni reali del conflitto capitale-lavoro assumono la forma di contraddizioni logiche, paradossi. La questione sta così: se il lavoro è contemporaneamente il mezzo e la condizione essenziale attraverso cui il capitale genera bisogni e li soddisfa in forma di salario e merce (una pagnotta due ore di lavoro, uno smartphone settanta ore, etc.), nel momento in cui viene pianificata la desertificazione lavorativa di un intero territorio, il capitale si trova a generare contemporaneamente un bisogno abnorme e condizioni nuove: bisogno di lavoro, ma di lavoro liberato dal capitale. Negli ultimi decenni abbiamo visto il capitalismo smaterializzarsi: con un log-in siamo ammessi al lavoro gratuito sui social o eravamo assunti senza contratto come rider; i salari sono diminuiti, ma i compensi dei dirigenti sono aumentati in scala geometrica; i licenziamenti arrivano con una e-mail o un sms; le sedi legali e fiscali di grandi gruppi sono emigrate; la produzione è stata delocalizzata; ingenti quantità di capitale, grazie anche alla sottrazione di risorse pubbliche, sono state liquidate nella spartizione di dividendi; gli stabilimenti dismessi vengono venduti a società occultamente collegate alle vecchie proprietà in modo da rientrare del capitale fisso. A che servirà questo immenso accumulo di liquidità? Sembra un film già visto. Mi pare s’intitolasse 1929. Fuga di capitale. In Italia, il settore automobilistico è il protagonista assoluto di questa tattica, perché non si fa carico di alcuna transizione, ma è chiaramente in dismissione. Se i padroni ragionano per paradossi, forse lo fanno per disorientare i lavoratori. Eppure, questa volta, rispetto agli anni della sconfitta e del riflusso, la classe operaia non si è fatta trovare impreparata, nonostante sia ormai decimata.
È forse per questo che l’assemblea permanente exGkn è divenuta un centro gravitazionale: perché non è vero che Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Tutti i giochi di parole del potere vengono respinti dall’intelligenza pratica operaia, che risolve i paradossi dimostrando la falsità delle premesse: che le cose stanno tutte in un altro modo. L’intelligenza operaia non è altro che genio dialettico, fantasia calcolata che tutto rovescia, ossia mezzo commisurato ai fini, per dare dagli inferi l’assalto al cielo. Perciò, come vuole la praxis, se i padroni chiudono la fabbrica ai lavoratori, gli operai aprono la fabbrica al territorio. Può darsi che occupare oggi una fabbrica suoni ‘antico’: lo facevano i nostri avi; noi semmai siamo vicini ai tempi dell’Anticristo. Ma superiamo per un attimo le comodità apocalittiche, e vedremo subito la rassegnazione chialistica alla storia che fa tutto da sé con le sue crisi e catastrofi spazzata via dalla consapevolezza di vivere nello sviluppo storico dei rapporti produttivi. Come una volta, appunto. Gli operai toscani ci avvertono: non nova, sed nove, nulla di nuovo, ma come non l’avevate mai visto! È così che tutto torna ad avere senso, perché è come se all’improvviso ricordassimo dove ci troviamo, come in un déjà-vu. Oggi esserci vuole dire soprattutto ricordare.
Dove eravamo rimasti?
Il rapporto passato-presente – che è sempre falso nel secondo termine, in quanto presente vuol dire sempre futuro – implica un riesame del tempo di vita trascorso e delle sue ipoteche deterministiche, che non può che assumere forma paradossale. Chiedete all’operaio Danio di ripercorrere la sua storia, vi risponderà: «Per trent’anni, in fabbrica, tu eri libero perché avevi un padrone». Potrebbe sembrare che la condizione operaia dagli estremi ‘80 in poi abbia seguito una traiettoria diversa dalla generale precarizzazione, magari per effetto della progressiva deindustrializzazione del paese, sicché un’aristocrazia operaia, quali i metalmeccanici, si sia trovata a godere di contratti e salari più vantaggiosi della media generale dei lavoratori specializzati: in astratto, se a un pieno di bisogni soddisfatti dal capitale corrisponde un vuoto di conflittualità nel lavoro, possiamo desumere che sia questa la ragione dell’esaurimento simbolico della classe operaia nel campo delle lotte. Non più liberi di lottare, ma finalmente liberi dalle lotte. Se invece cessiamo di astrarre dalle reali condizioni di sviluppo capitalistico e disabitiamo il mondo delle apparenze, quel paradosso operaio sulla libertà operaia illumina immediatamente la contraddizione insanabile. Come nell’interpretazione di Gramsci del dramma di Cavalcante nel X dell’Inferno (vv. 63-68 forse cui Guido vostro ebbe a disdegno […] Come / dicesti? Elli ebbe? Non viv’elli ancora?), il tempo verbale conta.
Poiché la fabbrica è per natura organizzata al fine dello sfruttamento umano, nessun bisogno reale è realmente soddisfatto; il padrone si assicura solo la riproduzione del capitale variabile, cioè del lavoratore, per il solo mezzo della conservazione del luogo fabbrica; le condizioni autoritarie di subalternità, quindi, persistono. Quando un lavoratore trova soddisfazione a un sovrappiùdi bisogni individuali, come comprarsi una moto Guzzi, si sta rafforzando il suo bisogno di stare nella fabbrica; contemporaneamente, se egli «era libero» in fabbrica, è perché il padrone stava creando le condizioni per accrescere il plusvalore della fabbrica, comprensiva di tutte le sue annessioni, prima fra tutte la forza-lavoro che in una fabbrica evoluta è una «figura del capitale».
Sussumendo in sé l’intera vita sociale della forza-lavoro vivente, il capitale si autovalorizza secondo quel modello che l’Autonomia Operaia chiamava «fabbrica sociale»: «La città, e il territorio nella sua interezza, sono diventati […] l’elemento propulsivo dell’innovazione e dell’accumulazione. [Ma poiché] non esiste innovazione senza sviluppo e non esiste sviluppo senza crisi, questa crisi si riversa sulla città sotto forma di rendita fondiaria e nel territorio in generale sotto forma di squilibri […] In definitiva, quindi, non più estrazione di plusvalore solamente ed unicamente dal diretto lavoro operaio, ma estrazione e tendenza all’estrazione di plusvalore dall’intero valore sociale e dalla stessa integrazione territoriale» (Contro la città dei padroni, a cura del CDL Valmelaina, aprile 1974). Gli operai se ne erano dimenticati? Probabilmente stavano in guardia.
La chiusura della fabbrica da parte del padrone e l’immediata reazione degli operai rivelano in un solo momento l’esistenza del conflitto mai sanato: la tattica di azzerare il capitale variabile (lavoratori) per speculare sul capitale fisso (fabbrica) viene capovolta dai lavoratori, così ché la fabbrica torna a essere il fulcro pratico e simbolico della lotta per la direzione dei mezzi di produzione, che vuole dire tutto. Vuole dire potere disporre di mezzi e tempo per soddisfare i bisogni sociali reali. Vuole dire sapere leggere nelle parole del capitale e dei suoi referenti politici la verità della propria condizione: il capitale umano ‘deindustrializzato’ verrà affamato ma non disperso, il territorio finirà depresso ma non abbandonato; essi diverranno capitale umano e territorio da ‘reindustrializzare’ a fini (filiera bellica?) e condizioni contrattuali nuovi. A questo piano i lavoratori hanno opposto la «fabbrica socialmente integrata».
La resa dei conti è quindi apparecchiata, ed entra in gioco la memoria.
Letteratura working class
La memoria è il punto di vista da cui guardiamo alle nostre spalle. Sulle spalle sta una testa che guarda e non è la testa di un altro, che pure ha occhi per guardare: perché quando due fanno la stessa cosa, non è la stessa cosa. Il soggetto conta. Quella che una volta si chiamava letteratura industriale è stata una letteratura scritta ancora da autori di una élite intellettuale di estrazione borghese, che se avevano in qualche caso vissuto la fabbrica era stato negli uffici della Olivetti. Il loro rapporto con la fabbrica, anche quando si ponevano «istanze di appropriazione, istanze di trasformazione ulteriore» (Vittorini) della realtà industriale, era per forza un rapporto prepolitico, non conflittuale, e per conseguenza non trasformativo.
Data la dissociazione dalla realtà prodotta dai rapporti di forza industriali («è, caro Attilio, il patto industriale», Pasolini), la letteratura dei tempi industriali ha spesso praticato una poétique du regard, che riassociava soggetto e oggetto per il tramite dell’annullamento del primo nel secondo, come se la realtà esistesse di per sé e sempre al di fuori di me per effetto dell’alienazione propria del mondo imposseduto e continuamente spossessato. E fin qui siamo alla ripresa oculare – propria di automi nevrotici – degli effetti della realtà industriale. Ma è davvero possibile impossessarmi di nuovo della realtà senza la vita, annullandomi nell’oggetto: senza vita, esiste un soggetto? La risposta è forse più clinica che critica; e in effetti se si vuole porre la questione in termini di trasformazione del reale – l’unico modo di sentire la realtà è la vita –, essa dovrebbe riguardare non ancora il soggetto, ma già la persona: se in fabbrica, lavoro dunque non sono, e mi determino perché lotto; in letteratura, parlo di me secondo me, sono dunque soggettività.
Lo specifico della letteratura working class si ricava dal suo nome che è una formula operazionale: «working» indica e sussume la condizione dello sfruttamento; «class» implica la coscienza del proprio esistere sociale a condizione che esista una classe sfruttatrice; perciò, anche il momento letterario è lavoro e immediatamente lotta per la liberazione da esso. Una simile operazione non può che essere racconto di vita della classe lavoratrice, per la quale verità e fantasia non si aboliscono a vicenda, ma sono entrambe strumenti per l’abolizione dell’irrealtà del potere. Ecco perché autobiografia e autofiction sono tra i generi più praticati.
La fabbrica dei sogni
Si sa che «da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa», e che quella cosa è la rivoluzione; e che, per farla, non si tratta «di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato» (lettera del settembre 1843 di Marx a Ruge); «di realizzarne le speranze», scrisse qualcun altro. Che cos’altro possono essere i sogni della fabbrica raccontata da Valentina Baronti?
Tra le scritture dell’io, La fabbrica dei sogni occupa un posto speciale. La struttura del libro è triadica: c’è la fiction (la storia di Agata e Lorenzo), ci sono sette sogni (i ricordi e la fabbrica occupata) e otto lettere (destinate ai due giovanissimi ideali dedicatari). All’ingrosso, la tripartizione si fonda sul tempo in questo modo: il presente della finzione, il passato-presente del sogno, il presente datato delle lettere. In pratica, il passato è il tempo del ricordo, e il presente è il tempo dell’azione dei personaggi – compresa la loro azione ‘sognante’ e ‘sognata’ – e della scrittura dell’io.
Le figure del ricordo sono essenzialmente due, la nonna e il padre: l’una è figura dell’oppressione femminile, l’altro della passione e della delusione politica. Questi simboli di un mondo che non appartiene a chi lo vive sono figure della memoria e come tali sono personaggi che agiscono nella fissità di un tempo irrimediabile: sono famiglia, il gene e la storia della solitudine di Agata. «Non ho mai visto i miei genitori volersi bene», le disse una volta il padre. Lorenzo e Agata, invece, sono i personaggi del tempo che scorre, la cui corrente sembra fatta per sciogliere inesorabilmente i grovigli umani che il mulinare dei suoi vortici avevano per un momento annodato. Il vortice, in questo caso, è stata l’occupazione della fabbrica. Se Agata arriva alla fabbrica, è perché vi è attratta dalla sua memoria familiare: non c’è scampo; eppure non è una condanna, bensì una liberazione. La lotta operaia che lì si conduce è, infatti, l’occasione per ripopolare e fertilizzare il deserto esistenziale del mondo a scadenza creato dal precariato, e per rendere finalmente bella la vita in modo da riconciliarsi con i morti. A dimostrarlo, è ancora il tempo narrativo. Che siano sogni o vicenda, l’unico tempo in cui memoria e vita, personaggi e figure si incontrano è il presente della lotta di fabbrica.
La sola sezione uniforme e apparentemente a sé è quella epistolare, di volta in volta intitolata dalla datazione: il tempo è quello reale della scrittura, perché solo qui compare l’io scrivente, che mentre fa metaletteraria professione di sé, rinnovando la «room for her own» di Virginia Woolf, si identifica con Agata. Proprio perché il resto del romanzo è in terza persona, manca l’io narrante, naturale in una autofiction. Nonostante ciò, le caratteristiche del genere sono rispettate, o meglio appaiono riformate da una volontà pratica precisa: la separazione tra personaggia e autrice è in uno stesso momento compiuta e ricucita da un’istanza di realtà. E non tanto perché apprendiamo sin da subito che la storia di Agata è la storia vera dell’io scrivente-epistolare, ma per via della data nel paratesto. Tutte le date (19 luglio 2021-20 novembre 2023) rappresentano, infatti, altrettanti momenti della ormai triennale vertenza. Ma c’è di più: nelle lettere compare spesso una rassegna stampa sulla vertenza. Inserire in un testo letterario delle fonti giornalistiche senza manipolarle o inventarle imprime a viva forza un marchio di autenticità storica anche al tempo apocrifo della fiction.
Il lettore non ha scelta. Egli deve subito fare i conti con una storia che lo coinvolge perché è ancora in corso – «perché se sfondano qui, sfondano dappertutto» –, e della quale i personaggi stessi gli stanno chiedendo conto; infatti, sia che essi emergano dal passato, sia che scaturiscano dall’invenzione, la loro tangibilità è garantita dall’io storico dell’autrice. Insomma, l’io scrivente è la soggettività necessaria della letteratura-lotta, perché la sua attività reca implicito il tempo che manca: il futuro del desiderio. È dunque evidente che la struttura del romanzo sia costituita dal tempo, cui è affidata l’intera strategia narrativa e persuasiva – vorrei dire propagandistica – del libro. Del resto, che cos’è il tempo se non qualcosa che vendiamo sebbene ne abbiamo sempre meno: quale paradosso, una letteratura che si fa lotta ha più merito se scioglie?
La fabbrica-scena
Se lo sfruttamento è universale, che senso ha chiedere a chi lotta per il lavoro come sta? «Noi stiamo così e voi come state? Voi tutti, come state? Perché la cosa è paradossale» (24 luglio 2021). La domanda del collettivo di fabbrica è ormai celebre, e a ragione! Perché fintanto che i lavoratori non si organizzano nuovamente, continueremo a vivere nel paradosso capitalistico del lavoro senza lotta, che è come dire del lavoro senza utilità sociale. Non a caso la domanda figura anche nello spettacolo Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto, pronunciata da un operaio del collettivo. Che ci fa un operaio sul palco assieme a una compagnia teatrale, la Kepler-452? Non intendo che cosa ha spinto la compagnia verso la fabbrica, ma espressamente che cosa ci fa la fabbrica sul palco. Per rispondere, occorre prendere in considerazione la drammaturgia de Il Capitale.
Si tratta di una scrittura collettiva che combina il tradizionale teatro didascalico all’artificio del metateatro. Mentre lo spettatore è straniato, secondo il più tipico espediente del teatro epico brechtiano, dagli estratti del libro di Marx proiettati in didascalie armoniche con la generale scenografia industriale – siamo noi spettatori a «non avere ancora letto» Il Capitale: gli operai non ne hanno bisogno –, i personaggi dicono e sceneggiano come lo spettacolo sia venuto fuori, raccontano del loro incontro con due giovani autori bolognesi («quelli della Digos»), raccontano la loro vita in fabbrica e soprattutto di come trauma e resistenza al licenziamento collettivo abbiano cambiato le loro vite («Non avevo bisogno di uno psicologo, avevo bisogno di occupare una fabbrica!»). Biografia e dramma, spettacolo ed esistenza si sommano in un divenire che dal 9 luglio 2021 porta, attraverso quaranta mesi di lotta operaia, alla scena odierna. Ma il punto è questo: la scena è diventata la fabbrica, e noi siamo finiti nell’occupazione. Noi non vediamo attori e attrici, ma personaggi vivi. A dimostrazione dell’operazione antimitologica sta, infatti, una frase: «lottare non è lavorare?». Sulla scena, quindi, non stiamo vedendo altro che i lavoratori lavorare davanti a noi. Il metateatro è così portato alle sue estreme conseguenze, e annulla la finzione per troppa realtà (non realismo!). Come anche nel libro di Baronti, siamo trasportati in un mondo vero, attuale, che ci riguarda, e lo siamo in un modo sincero, urgente, che interpella.
In definitiva, se letteratura e teatro diventano, a contatto con la lotta operaia, strumenti di propaganda, non si può che gioire. La sborghesizzazione delle lettere è salutare proprio perché condotta in una prospettiva convergente di lotta di classe che finora si voleva abortita e aborrita; e invece proprio la vecchia via per il futuro comincia a essere finalmente sgombrata: l’immaginazione di un mondo diverso nasce dalla realtà pratica che ricostruisce il mondo devastato, previo sabotaggio dei piani del capitale.
[Articolo apparso per la prima volta su Hubaut il 19/12/2024)
